Evviva la routine

 

Ieri pomeriggio non trovavo più la mia carta d'identità, ho guardato ovunque, spostato mobili frugato nelle borse, perlustrando anche luoghi dove non la si metterebbe mai...l'angoscia era salita alle stelle mentre mille pensieri si erano impossessati di me tra cui “magari qualcuno l'ha trovata, magari è una persona di malaffare e la cosa mi può portare guai”. Ero ormai decisa ad uscire per recarmi a fare denuncia di smarrimento presso una sede della Polizia di Stato, avevo già in mano le chiavi di casa, quando una voce interiore mi dice di controllare nel cassetto della scrivania. Era lì, come avevo potuto non pensarci prima? Mai stata così felice di vederla! Ieri
ero felice e lo sono ancora: nulla come uno scampato pericolo può farci apprezzare la routine quotidiana. Viva la normalità! 

Maria Giovanna Farina


La pensione

 

Dopo oltre quarant’anni di duro lavoro anche per Giordano era arrivato il tanto agognato e temuto giorno di lasciare il vecchio posto di lavoro e di godersi la meritata pensione. Era il suo primo giorno di libertà e invogliato dalla bella giornata primaverile decise di fare una passeggiata per il corso proprio durante le ore di lavoro, quando la gente occupata non se lo può permettere. Si sentiva leggero e fortunato, molti suoi colleghi non erano riusciti ad andare in pensione, il Signore li aveva chiamati a Sé anzitempo. Osservava tutto e tutti come non aveva mai fatto, solitamente alle quattro del pomeriggio di ogni giorno feriale si trovava in ditta a controllare che i macchinari a lui affidati funzionassero a dovere invece ora poteva permettersi di andare a spasso. Passeggiare a quell’ora non era come farlo durante i giorni festivi o comunque non lavorativi, la gente che vedeva era diversa, non sapeva bene in cosa fosse diversa ma la vedeva diversa. Giunto davanti ad una gelateria decise di prendersi un cono a due gusti, limone e pistacchio. Intanto che camminava lentamente per il corso gustandosi il suo gelato la sua attenzione fu attratta da uno strano tipo appoggiato al muro. Era vestito in modo dimesso ma non da straccione, capelli lunghi un poco arruffati, un paio di occhiali scuri ma non scurissimi, una folta barba brizzolata ornava il viso e aveva appeso al collo, tramite una catenella metallica, un cartellino con una scritta in caratteri veramente minuscoli. Giordano pensò tra sé e sé quanto fosse diverso dagli altri accattoni, ma forse non era un accattone, ma se non era un accattone cosa ci faceva lì? Decise di avvicinarsi all’uomo per capire cosa ci fosse scritto, ma una volta a portata di lettura poté solo leggere parole incomprensibili, senza significato, parole che non volevano dire niente.

  • Mi scusi, ma cosa significa quel cartellino?

  • Perché lo vuole sapere?

  • Penso che se qualcuno espone un cartello è perché vuole che venga letto.

  • Giusto! Ha perfettamente ragione, ma se lei avesse subito letto il cartello probabilmente non si sarebbe fermato e se la scritta fosse chiara non mi avrebbe posto alcuna domanda.

  • È vero, non ci avevo pensato.

  • Sono tante le cose alle quali non ci si pensa.

  • Mi scusi se forse le sto sembrando uno che non si fa i fatti suoi, ma lei cosa ci fa qui?

  • Lei cosa pensa che ci faccia?

  • Ma, non saprei, forse chiede l’elemosina.

  • Le sembro uno che chiede la carità.

  • Ad essere sincero non saprei, ma quelli che si pongono così, come fa lei, di solito la chiedono.

  • No, non chiedo la carità, almeno in senso stretto come viene inteso dall’accezione comune. Stavo aspettando lei.

  • Me?!

  • Sì, lei.

  • Ma me proprio me?

  • Beh, non lei proprio lei, ma qualcuno come lei, qualcuno che non avendo niente di meglio da fare si sofferma davanti un apparente barbone e si chiede cosa faccia appoggiato al muro con appeso al collo un cartellino incomprensibile.

  • Quindi io le do l’impressione di non avere niente da fare?

  • Chi si può permettere alle quattro e mezza del pomeriggio di passeggiare guardando di qua e di là per il corso leccando un cono gelato?

  • Lei mi ha quindi osservato?

  • Osservo tutto quello che mi passa davanti.

  • Le andrebbe di sedersi da qualche parte.

  • Cosa intende da qualche parte?

  • Non so, in un bar, su di una panchina, da qualche parte, dove vuole lei.

  • Perché mi fa questa proposta?

  • Perché come ha detto lei non ho niente da fare e lei mi incuriosisce. Sa, oggi è il mio primo giorno di pensione.

  • A beh, se è così… volentieri, ma per favore non mi faccia scegliere, decida lei.

  • Le andrebbe una coppa di gelato seduti? Lì dove ho preso il cono lo fanno molto buono e ho visto che ci sono dei tavolini dove si può parlare senza essere disturbati.

  • D’accordo, grazie, accetto volentieri.

Si tolse gli occhiali, il cartellino e si incamminarono verso la gelateria. Appena giunsero si sedettero in un angolo appartato dove poter conversare tranquillamente.

  • Allora cosa desidera?

  • Visto che è da stamattina che non mangio gradirei un mangia e bevi.

  • Bene, allora per farle compagnia un mangia e bevi anche per me.

Poco dopo gli portarono due grosse coppe di mangia e bevi

  • Caspita, che coppa, non so se ce la farò a finirla.

  • Io credo proprio che non avrò problemi, ma mi dica, non penso che mi abbia invitato solo perché non aveva niente da fare?

  • No, il vero motivo è che lei è così diverso dalle persone che sono solito frequentare che l’ho trovata molto interessante e che offrirle da bere fosse il minimo che potessi fare.

  • Lei è veramente una brava persona. Che lavoro faceva prima di andare in pensione?

  • Niente di particolare, mi occupavo delle macchine in una fabbrica di filati

  • Beh, un lavoro di responsabilità. Se si fermano i macchinari sono soldi che si perdono.

  • È vero, è quello che mi diceva sempre il mio capo. Pensi sono entrato in quella fabbrica più di quarant’anni fa e non ho mai avuto il piacere di conoscere il padrone.

  • Padrone, che brutto termine, il proprietario si dice. Comunque sono certo che anche se lei non l’ha mai conosciuto lui conosceva tutti i suoi dipendenti.

  • Figuriamoci se con tutto quello che aveva da fare aveva anche il tempo di conoscere i suoi operai, comunque padrone o proprietario per me era sempre quello che aveva i soldi, ma lei piuttosto, mi parli un po’ di lei.

  • Cosa vuole che le dica, anch’io lavoravo in una fabbrica e ad un certo punto mi sono stancato, ho avuto una crisi esistenziale, ho rinunciato ad ogni mio avere, ho lasciato tutto in mano ai miei figli e me ne sono andato, all’inizio con un po’ di soldi in tasca, ma poi, una volta terminati ho preferito vivere alla giornata, girando di qua e di là, dormendo dove capita e mangiando quando qualcuno come lei mi offriva qualcosa, ormai sono già due anni che vivo così, sono felice della scelta fatta, ho imparato cosa voglia dire tirare a campare e quel che è più bello non ho obblighi e nessuno sa dove sia.

  • Però che coraggio! Ha detto di aver lasciato tutto in mano ai suoi figli? Vuole dire che la fabbrica era sua?

  • Beh sì, mi vergogno a dirlo ma è così.

  • Vuole dire che io, un povero operaio in pensione, ho offerto da bere ad un industriale?

  • A un ex industriale, ora sono più povero di lei, non ho neppure la pensione, caro Franceschini.


Max Bonfanti, filosofo analista

Socrate è morto invano?


Socrate è morto invano? Una domanda che mi sono posta molte volte e negli ultimi tempi è una dubbio, non socratico ma amletico, che mi picchia in testa come un martello pneumatico. Sì perché il dubbio socratico conduce ad una soluzione, è un dubbio produttivo, mentre quello amletico mi sembra capace solo di giungere in uno stallo perenne. Socrate, il filosofo che ha cercato per tutta la vita di far partorire le menti, di smantellare le idee preconcette, di aiutare i suoi interlocutori a ragionare con la propria testa per trovare il vero se stessi, lui il grande filosofo è stato condannato al suicidio con un veleno quale la cicuta. Avrebbe potuto salvarsi per mano di amici e discepoli in grado di farlo espatriare, ma lui no, è rimasto fedele a ciò che ha sempre perseguito: Il rispetto delle leggi anche se applicate ingiustamente.

Spesso ascolto o leggo sui social discorsi poco o per niente liberi da stereotipi, leggo pensieri di parte ossia di quella o quell'altra parte politica ripresi dalle persone senza la volontà o forse la capacità di analizzare un fatto, un evento o una persona con la mente libera da luoghi. Ciò mi dispiace per il fatto che si perde la capacità umana di decodificare i messaggi non verbali, la vera natura di un contenuto, la possibilità di arricchire la propria mente. La confusione regna sovrana, si dice il tutto ed il suo contrario, ma questo esisteva già ai tempi di Socrate.

Allora concludo la mia breve riflessione con una considerazione: Socrate non è morto invano finché ci sarà una sola persona a ricordare il suo messaggio filosofico.

Non siamo solo cagnolini

Un libro per chi ama i cani e per chi conoscendoli imparerà ad amarli. Un invito alla lettura in occasione de Oltre il maggi dei libri 2020, Fabrizia Erminia Malin dialoga con Maria Giovanna Farina e Milly, la cagnolina voce narrante del libro, Il testo si può acquistare anche in e-book Gilgamesh editore.





Il lungo viaggio della parola nella cura della follia

 

                                          Natura morta in rosso, opera di Paola Giordano

La parola e la cura iniziarono un comune cammino tanto tempo fa, inconsapevoli del loro imprescindibile, indissolubile e benefico rapporto di cooperazione nella terapia. Quanto è efficace la parola nella cura della malattia mentale? Questo mio breve percorso di indagine desidera focalizzare il suo punto di origine, la sua evoluzione e i suoi sviluppi per cercare una risposta attraverso il pensiero di taluni studiosi di grande importanza teorica e pratica. Prendo le mosse, partendo dalla contemporaneità, ritornando al passato e poi ancora al presente, dalle considerazioni del filosofo Michel Foucault (1926-1984) circa la condizione di esclusione sociale della follia: le sue riflessioni sono a mio avviso imprescindibili. Chi è folle, alienato, altro da sé, o ritenuto tale, non ha alcun diritto, è escluso e tenuto a opportuna distanza. Dopo l'apertura dei cosiddetti manicomi, la follia avrebbe dovuto farsi epifania: mostrarsi senza alcun velo protettivo, ma non è stato così. Ma siamo certi di cosa sia davvero Follia? Non sarà qualcosa che ancora volutamente viene obliato? Una condizione umana da nascondere agli occhi della presunta normalità?

Nel dicembre del '70, il filosofo Michel Foucault durante la lezione inaugurale al Collège de France di Parigi lesse un discorso, divenuto il famoso testo L'ordine del discorso, dove afferma:

[…] suppongo che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante, terribile materialità.(1)

Il filosofo francese considera come la produzione del discorso sia soggetta ad una sorta di censura che si attua attraverso un certo numero di procedure come quella di esclusione, interessante per la nostra riflessione:

Esiste, nella nostra società, un altro principio di esclusione: non più un interdetto ma una partizione (partage) e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia. Dal profondo Medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto, non avendo né verità né importanza, non potendo far fede in giustizia, non potendo autenticare un atto o un contratto, non potendo nemmeno, nel sacrificio della messa, permettere la transustanziazione e fare del pane un corpo; capita anche, in compenso, che le attribuiscano, all'opposto di ogni altra parola, strani poteri, quello di dire una verità nascosta, quello di annunciare l'avvenire, quello di vedere del tutto ingenuamente quel che la saggezza degli altri non può scorgere.(2)

Nell'antitesi ragione-follia si insinua indisturbato e con un certo grado di prepotenza il potere del divieto. Del divieto ad esprimere il proprio pensiero: sei folle e ciò che dici, in ogni produzione della tua esistenza, rimane inattendibile. Con questo criterio si può far tacere anche una profonda verità. La sua verità, quella visione del mondo reale e concreta che appartiene solo a lui. Se è vero che il folle nella propria alterazione e allucinazione scorge una dimensione altra rispetto a quella condivisa universalmente, è altrettanto plausibile e sacrosanto il suo poter/dover raccontare la propria esperienza di esistenza a qualcuno cui interessi: questa diventa libertà nella e della cura.

[….] per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa [….] O cadeva nel nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si decifrava una ragione ingenua o scaltrita, una ragione più ragionevole di quella della gente ragionevole [….] La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; ma non erano mai accolte né ascoltate.(3)
Per comprendere la follia, la psicosi, è invece assolutamente necessario ascoltare e saper decodificare la parola, quel suono umano che il linguista Ferdinand de Saussure, nella sua distinzione langue/parole, significante/significato, ritiene altro dalla lingua. La lingua è un codice di regole e di strutture grammaticali che ognuno prende dal proprio contesto sociale senza poterle alterare. La parole invece è il momento individuale, variabile e creativo del linguaggio, il modo cioè con cui chi parla

utilizza il codice della lingua in vista dell’espressione del proprio pensiero personale”(4)

Questo studio sulla lingua fornisce lo spunto culturale e teorico per la nascita dell'ascolto terapeutico, ascolto di ciò che esiste al di là di quella cosa che si palesa: il mettersi in ascolto di quell'Altro che parla esprimendosi con determinate parole e non con altre. Parole che vanno indagate. La deleteria consuetudine all'in-ascolto del folle ha creato terreno fertile al non accoglimento di chi non è ritenuto conforme, atteggiamento negativo che non si è fermato al disinteresse bensì, andando oltre, si è spinto alla negazione della sua verità.

Dice Foucault:

Mai prima della fine del XVIII secolo, un medico aveva avuto l'idea di sapere ciò che era detto (come era detto, perché era detto), in questa parola che pur tuttavia stabiliva la differenza. Tutto l'immenso discorso del folle si risolveva in rumore; e la parola non gli era data che simbolicamente sul teatro in cui si faceva avanti, disarmato e riconciliato, poiché vi sosteneva la parte della verità con la maschera.(5)

Colpisce la grande attualità del discorso, il parlare di sé del folle che si fa, diviene, rumore: il rumore è qualcosa di fastidioso che si oppone al suono ritenuto invece armonioso e di gradevole ascolto. Quando il rumore è sottofondo costante conduce al non-ascolto e, anche se può trasmettere significando qualcosa di rilevante, nessuno presta più attenzione. Il rumore procura fastidio, quando si fa troppo rumore si ottiene disinteresse. Pensiamo al caso in cui per criticare con la satira si fa spettacolo spettacolarizzando anche su gravi fatti di corruzione, collusione e abuso: tutto portato al paradosso e all'eccesso desta interesse e ilarità ad un'analisi più superficiale, in realtà col tempo si risolve in tanto rumore per nulla. Così l'immenso discorso del folle, divenendo rumore, perde la sua natura significante. Al folle, e a chi non è conforme allo status quo, viene data solo la possibilità della maschera, una tragica copertura della verità negata.

[…] si dirà che tutto questo è finito oggi... ma tanta attenzione non prova che la vecchia partizione non sia più valida oggi: basta riflettere su tutta l'armatura del sapere attraverso cui decifriamo questa parola; basta pensare a tutta la rete di istituzioni che consente a qualcuno, medico, psicoanalista, di ascoltare questa parola e che consente nello stesso tempo al paziente, di venir a portare o a trattenere disperatamente, le sue povere parole; basta riflettere su tutto questo per sospettare che la partizione, lungi dall'essere cancellata, agisce altrimenti, secondo linee diverse, attraverso nuove istituzioni […] e quand'anche il ruolo del medico non fosse quello di prestare orecchio a una parola finalmente libera, l'ascolto si esercita pur sempre nel mantenimento di una cesura […](6)

L'opposizione ragione/follia è solo apparentemente estinta e in questo discorso Foucault mette in luce il potere di chi ascolta. Un potere che può diventare arbitrio se chi ode non è libero dagli stereotipi sulla diversità, sul non senso delle parole degli alienati che, nei casi gravi, divengono “insalate verbali”. Eppure quelle parole, se studiate, sanno comunicarci qualcosa. Le parole sono la materializzazione del pensiero, per conoscere ed indagare il pensiero si parte dal discorso del soggetto. È importante sottolineare che chi ascolta e deve comprendere fa una traduzione, deve dare senso e nel farlo può fuorviare e tradire il senso. Questa condizione ha le sue origini in Ermes, il messaggero degli dei, colui che spiega e quindi tra-duce il loro dire, l'interprete è di conseguenza sempre un tra-ditore. L'Ermeneutica filosofica ai suoi albori è pertanto teologica, Heidegger ci spiega con chiarezza il suo significato filosofico:

[…] ermeneuein è quell'esporre che reca un annuncio, in quanto è in grado di ascoltare un messaggio […] Ermeneuein non significa primariamente interpretare ma prima di questo il portare messaggio e annuncio.(7)

Questa condizione dell'ermeneuta, svincolata dalla Teologia, diventa capacità di ascolto che non tradisce il senso ma lo porta fuori, nel senso che lo sa condurre-al-di-fuori della mente simbolicamente rappresentata dall'entità divina: si porta fuori attraverso il mediatore che, ascoltando, si fa messaggero. Chi “estrae” non può subito interpretare, o meglio non può farlo se non prima abbia compreso, studiando, osservando e ascoltando, chi parla e le sue parole. Quella parole di cui raccontava de Saussure: la produzione personale.

Anche se il matto è stato liberato, sciolto dai vincoli dalle catene da Philippe Pinel, la cui opera Il trattato medico-filosofico sull'alienazione mentale e la mania è uscita nell'ottobre del 1800, per Foucault non sembra esserci via di scampo. Facendo quindi un balzo indietro di oltre un secolo prendiamo in considerazione Pinel, psichiatra e filosofo che libera i folli custoditi in un regime di vera deprivazione della libertà, non solo fisica ma anche morale. Durante gli anni 1793-1795 in cui è medico presso l'ospedale di Bicêtre a Parigi, Pinel attuando la liberazione dalle catene fa un gesto che mette in risalto la possibilità della cura per ogni malato di mente, e con ciò non dice che tutti sono guaribili, ma dà inizio alla psichiatria moderna creando una vera e propria rottura epistemologica con la concezione antica della malattia mentale. Anche dal punto di vista etico c'è la presa di coscienza che ogni folle è una persona che non può essere trattata in modo disumano. In un passo della sua opera afferma, riferendosi ai luoghi, ciò che ben rappresenta la detenzione psichiatrica dell'epoca:

[…] la grossolana durezza, i colpi, le percosse, oserei dire i trattamenti atroci, e talora mortali che si possono perpetrare in quegli ospizi di alienati in cui gli inservienti non sono tenuti sotto controllo con la più attiva e severa vigilanza.(8)

La teoria psichiatrica di Pinel è una teoria delle passioni, passioni che se portate all'eccesso conducano alla follia. Va sottolineato che terapia morale non ha nulla a che vedere con l'Etica e la Morale, ma si tratta di una vera e propriaterapia psicologica da applicare al malato a partire dalle condizioni in cui lo si trattiene in ospedale. La descrizione è di straordinaria modernità e sintetizzando la possiamo riassumere in tre punti.

1- Il malato va tenuto il più possibile lontano dall'ambiente famigliare. 2- I manicomi devono essere suddivisi in reparti. 3- Devono ricercarsi dei metodi psicologici per contrastare la malattia mentale.

Effettivamente si comprende come il vivere nel contesto patogenetico sia assolutamente opponente alla guarigione, come abitare in promiscuità con persone più gravi sia deleterio; questo trattamento psicologico, se pur rudimentale, si avvicina al concetto di cura moderno in cui la parola inizia ad entrare.

I cupi malinconici saranno messi in un sito piacevole e in luogo adatto alla coltivazione dei vegetali; i maniaci in stato di furore [...] saranno confinati nel luogo più appartato dell'ospizio […] Coloro che sono affetti da mania periodica, saranno tolti da questo locale nei loro intervalli di lucidità e riportati tra i convalescenti [..](9)

Il direttore del manicomio, descritto come una persona dall'alto valore morale in grado di fungere da esempio per tutti i degenti, è una sorta di padre giusto in cui identificarsi per ristabilire quell'ordine interiore andato perduto. Un ordine esterno, la divisione in reparti, una terapia precisa, una disciplina nella conduzione del trattamento, riportano a quell'ordine interiore che la malattia ha disabilitato. Naturalmente non tutto ciò che Pinel afferma è da prendere come esempio assiomatico, ma è degno di nota il grande passo avanti fatto compiere alla psichiatria nel suo cammino verso lo strumento della parola.

La mania di cui parla Pinel verrà sostituita con il termine psicosi, definizione che si diffonderà nella letteratura psichiatrica di origine tedesca a partire dal XIX secolo, sarà poi la psicoanalisi a dividere le psicosi in due grandi gruppi:

1- paranoia e schizofrenia da un lato 2- mania e melanconia dall'altro.

Con queste premesse ci avviciniamo ad una rinnovata visione della psicosi e del soggetto che ne è affetto. È il nuovo approccio a far da terreno produttivo all'ascolto sempre più approfondito del senso della parola in rapporto al contesto. In questa prospettiva, Gregory Bateson, l'iniziatore della terapia famigliare, è culturalmente rilevante nel '900 in campo psichiatrico: non è psichiatra, ma il suo grande apporto allo studio e all’analisi della comunicazione diventa una pietra miliare. L'antropologo Bateson nella sua opera Verso un'ecologia della mente ci racconta come studia l'insorgenza della schizofrenia nelle famiglie da lui prese in esame. Lì scopre il doppio vincolo (double-bind), situazione in cui la madre trasmetterebbe al figlio messaggi tra loro discordanti. Ciò che lo studioso ha evidenziato sono delle particolari situazioni famigliari in cui è presente una madre che non sa gestire l'affettività e in contemporanea la mancanza di una figura di riferimento forte come un padre: fin qui nulla di nuovo. Ciò che fa della teoria di Bateson una profonda innovazione nel campo dell'analisi della comunicazione è l'individuazione del doppio vincolo: una sfasatura tra messaggio digitale e analogico per dirla in modo tecnico. Un esempio tratto dalle sue parole si rivela del tutto esaustivo per comprendere il ruolo comunicativo materno:

[…] il bambino deve sistematicamente distorcere la sua percezione dei segnali metacomunicativi. Ad esempio se la madre comincia a provare ostilità (o affetto) per il figlio e contemporaneamente si sente spinta a ritrarsi da lui, potrebbe dirgli: “Va' a dormire sei stanco e voglio che ti riposi”. Questa frase apertamente affettuosa tende a negare un sentimento che potrebbe essere espresso con le seguenti parole: “Va' fuori dai piedi perché sono stufa di te”.(10)

Con le scoperte di Bateson, dallo studio della lingua come produzione individuale, si giunge all'analisi della tonalità della voce nel tentativo di trovare qualcosa che vada oltre il significato simbolico, il significante o il mero significato lessicale. La metacomunicazione dello schizofrenico diventa il punto di accesso alla sua sfera emotiva e comportamentale, un nuovo ed efficace metodo di indagine che tiene conto delle sue relazioni sistemiche. La famiglia è un piccolo organismo di relazioni incrociate che ripercorre il grande sistema relazionale della società in cui il malato deve vivere: se nel suo piccolo e protetto nucleo privato non riesce a relazionarsi in modo adeguato come potrà farlo in balia dell'estraneo nel grande mare pubblico?

Se il bambino interpretasse correttamente i segnali metacomunicativi dovrebbe fare i conti col fatto che la madre non desidera averlo vicino e per di più lo sta ingannando dimostrandosi affettuosa. Egli sarebbe “punito” per aver appreso con cura l'ordine dei messaggi, e quindi piuttosto che riconoscere l'inganno materno tende ad accettare l'idea di essere stanco.(11)

Per continuare a vivere con la madre, il bambino è spinto ad ingannare se stesso dall'interno, ciò che percepisce dentro di sé, e dall'esterno, ciò che riceve dalla comunicazione materna: si rivela così un doppio errore di discriminazione comunicativa.

Il bambino dunque è punito se discrimina correttamente i messaggi della madre, ed è punito se li discrimina scorrettamente: è preso in un doppio vincolo.(12)

Se decodificasse correttamente i segnali della madre dovrebbe ammettere dolorosamente di non essere gradito, se li negasse mentirebbe a se stesso: nell'impasse sceglie di mentire. Questa particolare condizione accade anche ai bambini normali, ma nel doppio vincolo studiato da Bateson si crea una distorsione comunicativa permanente e di conseguenza deleteria per l'equilibrio del piccolo che deve crescere.

L'analisi e la decodificazione corretta della comunicazione distorta conduce così nell’area della cura: ora è possibile instaurare un dialogo, seppur particolare e con delle regole precise, anche con uno psicotico. Nella cura della schizofrenia entra in gioco il dialogo che è dià, "attraverso" e logos, "discorso”, è un parlare passando attraverso, direi perforando il muro dell'incomunicabilità. Socrate ne era maestro, ne fece un uso, forse, inconsapevolmente terapeutico ante litteram. Il dialogo ricostruttivo del sé nasce con la sua arte maieutica e percorrendo un lungo viaggio fino al lettino cerca il suo maieuta nella rete di relazioni in cui siamo immersi. Ma è il famoso sofista Gorgia da Lentini vissuto nel V secolo a.C. a fornire un significato alla parola del tutto originale e precursore dei tempi. Nel suo Encomio di Elena si esprime così

[...] la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere, riesce infatti a calmar la paura, e a eliminar il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà.(13)

La sua spiegazione è legata alla fisiologia e lo afferma poche righe dopo

C'è tra la potenza della parola e la disposizione dell'anima lo stesso rapporto che tra l'ufficio dei farmaci e la natura del corpo.(14)

Per i Greci il farmaco (farmakon) ha il duplice valore di veleno e filtro magico, la parola come la medicina può rivelarsi infatti un rimedio efficace o un veleno mortale. Comprendere questa estrema e antitetica potenza della parola, il suo essere tagliente e violenta mentre all'opposto è indagatrice e lenitrice della sofferenza, rivela una dote di profonda analisi della comunicazione che ci mostra come certe cognizioni sulla vera natura dell’animo umano provengano da molto lontano. Certo, Gorgia era un sofista e la sua arte rivolta alla persuasione ingannevole lo dipinse come venditore di parole, maestro di retorica, ma ciò non offusca minimamente queste intuizioni così acute. Da filosofi non dobbiamo farci condizionare dalle etichette, dagli stereotipi, e prendere il meglio della produzione intellettuale di ogni pensatore.

Per concludere il nostro breve viaggio possiamo considerare il fatto che conoscere, e sapere riconoscere, le psicosi e le sue manifestazioni diviene un punto fondamentale per non commettere gravi errori di valutazione, per non proporre una cura filosofica con la parola a chi non la può e non la deve intraprendere. Ricordiamo che la parola è un esser-ci finito e infinito dove l'essere si esprime attraverso il linguaggio, strumento in continua evoluzione che assume significazione anche nel contesto della follia. La parola nella cura della psicosi può dare il suo prezioso apporto: prima di tutto nell’ascolto di quel rumore di cui parlava Foucault: “Tutto l'immenso discorso del folle si risolveva in rumore”.

Che ciò non sia più.

1) M. Foucault, L'ordine del discorso, Einaudi, Torino 1985, p. 9.

2) Ibidem, pp. 10-11.

3) Ibidem, p. 11.

4) F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1978, p. 24.

5) Ibidem, p. 11.

6) Ibidem, p. 12

7) M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1974, pag. 89-90.

8) Ph. Pinel, La mania: trattato medico-filosofico sull'alienazione mentale, Marsilio, Venezia 1987, p. 56.

9) Ivi, p. 118.

10) G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1997, p. 258.

11) Ibidem, p. 259.

12) Ibidem, p. 260.

13) Gorgia, Encomio di Elena, 82 B11, 8.

14) Gorgia, Encomio di Elena, 82 B 11, 14.

Maria Giovanna Farina


Adulatore, ruffiano, tirapiedi: in una parola leccaculo


Il dizionario definisce il leccaculo una “persona bassamente servile, pronta ad adulare in qualsiasi modo i potenti per ingraziarsi i loro favori e trarne profitto”. Impariamo a riconoscerli.

 La carriera del leccaculo, definito anche adulatore, ruffiano, tirapiedi, inizia alla scuola d’infanzia, lì impara ad ingraziarsi il potente a partire dal bambino più forte: l’attivista lecchino si fa così le ossa. Quando ero piccola, ricordo alcuni bambini al lunedì arrivare a scuola con un mazzo di fiori per la maestra, era un bel modo anche per assicurarsi il privilegio di cambiare l’acqua ai fiori durante la settimana, azione che li proiettava ad uno scalino superiore rispetto agli altri bambini. Era la sua mamma a mettergli in mano i fiori che, probabilmente anche lei dedita alla stessa proficua attività di lingua, già lo stava istruendo. Ora non pensate male, non tutti i doni alla maestra sono fatti per adularla, ci sono anche, per fortuna, regali spontanei. La carriera del leccaculo prosegue e si fa sempre più fitta di impegni, mentre lui, o lei, diventa sempre più abile. Era un principiante quando ai tempi della scuola media durante l’intervallo si presentava sorridendo al prof di turno con il caffè fumante; poi, alle superiori, è in grado di sedurre il suo insegnante, con stile sdolcinato, per giustificare, magari, un malessere non ben definito… fine ultimo: schivare l’interrogazione. Il tempo passa e i piccoli leccaculo crescono mentre il cerchio di conoscenze diventa più ampio, come i favori da lesinare. Sì, perché il leccaculo non ti fa mai domande dirette, ma striscia nella speranza di accaparrarsi quello di cui ha bisogno. Così, a seconda del suo campo d’interesse, cerca di conoscere tutti quelli in grado, nell’ambito del settore dove pensa di poter emergere, di favorirlo. Si mostra generoso, dedito alla fatica, dichiara amicizia, fedeltà, disponibilità. Arriva a professarti amore per poi tradirti con quello di un gradino sopra di te appena ha l’occasione. Ricordati che, grazie a te che hai creduto alle sue lusinghe, è salito più su ed ha incontrato un altro a cui scroccare privilegi. Un po’ di adulazione non guasta, dire ad una persona che è bella quando è solo carina può far crescere la sua considerazione di sé, ma è davvero irritante chi usa la sviolinata solo per ottenere appoggi, piccoli o grandi, con l’obiettivo ultimo di scavalcarti. Se lo vuoi riconoscere, ricorda che il soggetto in questione si mostra gentile, non litiga quasi mai con nessuno, ma se stai attento riesci ad avvertire che la sua è una gentilezza falsa, appiccicosa. Se ti dichiara amore, pensaci, non si possono amare tutti. Se dice che ciò che fai è straordinario è perché vorrebbe essere al tuo posto. Se ti incensa e parla bene di te in pubblico è solo per apparire e mostrare quanto è bravo.

Fin dall’asilo ti ha infastidito, ha continuato nel corso degli anni e lo fa ancora perché nonostante tu lo abbia capito, non riesci a smascherarlo: non provarci, la maggior parte delle persone ti dirà che sei geloso e invidioso. Non tutti si accorgono del leccaculo e tu faresti solo brutta figura. Allora aspetta, prima o poi sarà messo a nudo. Sai perché? Perché il leccaculo, tirapiedi, adulatore… non è molto intelligente, altrimenti se la caverebbe da solo e, prima o poi, farà un passo falso. E la maschera va giù, lasciando la sua lingua a secco. Concludendo: consoliamoci, la sua fine è segnata, lo stesso Dante Alighieri nel canto XVIII de l’Inferno non ebbe pietà per i leccaculo tanto da immergerli per l’eternità in una bolgia piena di escrementi. 

Maria Giovanna Farina


L'eredità del Covid


Subire un periodo di chiusura, per usare termini italiani e non approfittare sempre della lingua inglese, può essere stata una esperienza diversa per ognuno di noi.

C'è chi si è sentito prigioniero, privato dei suoi diritti primari (cosa vuol dire che non posso uscire di casa?), chi ha goduto finalmente della famiglia e chi con la famiglia attorno 24 ore su 24 è schizzato. C'è chi finalmente si è sentito protetto nella sua abitazione e chi ha finalmente evitato le solite interferenze dei vicini o degli amici insistenti. Perché in fondo è così: se vivi di telefono e mezzi on line, puoi far finta di non aver letto, sentito, ricevuto, quello che invece di persona devi subire quotidianamente.

Io? sono stata benissimo, seppur sola; forte di una casa accogliente, di un giardino che mi permette di uscire liberamente... E così ho potuto assaporare una vita pacata, senza corse, senza impegni obbligati a cui spesso non so dire di no, insomma...peccato che è finito. So di dire una sciocchezza, devo dire e lo faccio con  convinzione, meno male che è finito e speriamo non torni, ma non lo dico per me. Lo dico pensando a chi è mancato, agli amici perduti, agli ammalati, ai loro parenti, all'economia del paese, anzi del mondo intero.

Ma per tornare a me, in quei mesi mi dicevo - ecco, così dovrò fare alla ripresa, dosare le cose da fare, rinunciare a questo per scegliere quello; sarà così, ce la farò. E invece? tempo una settimana, alla ripresa delle attività eccomi di nuovo immersa in quella fretta ingiustificata, in quel non saper dire di no a tutti e ad avere, ancora una volta, l'ansia del fare. Allora non mi ha insegnato niente il Covid? Oh tante cose, il rispetto altrui, che non è mai mancato, l'attenzione a regole e norme da rispettare assolutamente, ma la pazienza e la calma no. Ha vinto ancora una volta la frenesia della vita moderna, quella che, a dirla con Calindri, una volta si vinceva con un Cynar...

Tutt’intorno, invece, fin dall'inizio ho avvertito una grande apertura agli altri, agli ultimi. Lavorando nel volontariato subito abbiamo notato quanto più si è mossa la gente. Se da un lato le richieste di aiuto sono salite alle stelle, con incrementi dei bisogni esagerati, dall'altro tantissimo veniva donato, dai privati e non solo. Abbiamo potuto sfamare molte nuove famiglie, oltre a quelle che assistiamo regolarmente, arrivando a giorni ad avere anche il superfluo.

Questo è stato, e se continua, è un aspetto molto positivo.

Purtroppo però, noto nella società una recrudescenza dei disagi e ne sono un esempio i fatti di cronaca di questi ultimi giorni. Ancor più violenze, sopraffazioni, femminicidi.

Il Covid ci ha inoculato una sofferenza maggiore? Non ci ha regalato solo solidarietà e pacatezza, ma anche insofferenza e voglia di predominare? No, questo non è il virus, ma la natura umana, che quando ci si mette mostra benissimo il peggio di sé, Covid o non Covid.

Spero possano arrivare al cuore di tutti e far riflettere le parole di Papa Francesco all’Angelus della festa di Pentecoste:

Voi sapete che da una crisi come questa non si esce uguali, come prima: si esce o migliori o peggiori. Che abbiamo il coraggio di cambiare, di essere migliori, di essere migliori di prima e poter costruire positivamente la post-crisi della pandemia.”

Giuliana Pedroli, giornalista



Ricordo di un viaggio ad Amsterdam

 


Il viaggio è un momento per ritrovare lo spirito di esplorazione vivo da sempre dentro l'essere umano, una spinta a conoscere il diverso da noi, ma anche il bello, il nuovo, la meta. In questo modo ho sempre interpretato il bisogno di muovermi nel mondo: una necessità ancestrale e allo stesso tempo via di fuga dalla pesantezza della routine. In questo momento storico quando il virus ci ha addirittura bloccati in casa per alcuni mesi e tuttora non conosciamo il giorno preciso in cui saremo di nuovo liberi, ecco che avvertiamo il bisogno di andare lontani.



Così mi sono affiorati i ricordi dei viaggi passati, viaggi capaci di alleggerire il senso di impotenza e far avvertire meno gravosa l'attesa del ritorno alla libertà.

Nel 2008 ho finalmente coronato un sogno, quello di andare ad Amsterdam, non ci ero mai riuscita nonostante lo avessi messo nei miei programmi. La cosa sorprendente fu scoprire che una mia amica, Silvia, che conosco dai tempi della prima superiore, aveva lo stesso sogno irrealizzato: la concomitanza fortunata ci ha fatto decidere per la partenza. Senza rendercene conto ci siamo trovate nella splendida Venezia del nord durante la Festa Nazionale della Regina, così abbiamo visitato la città colorata di arancione in occasione della ricorrenza. Il motivo principale per cui volevamo recarci ad Amsterdam era poter finalmente metter piede nel Museo di Van Gogh ed anche in questo caso la fortuna ci ha assistite perché era in corso una mostra in cui si potevano ammirare i capolavori di Vincent provenienti da musei di tutto il mondo.



Considero da sempre Amsterdam la libertà per antonomasia, luogo in cui si rifugiò per un periodo il filosofo Cartesio spaventato dalla condanna inflitta a Galileo, una meravigliosa città ricca di canali ai cui bordi sono parcheggiate migliaia di biciclette; le piste ciclabili là sono larghe come le nostre strade, puoi pedalare in sicurezza perché le automobili sono in minoranza. Inutile dire che adoro le due ruote fin dall'infanzia. Il viaggio è anche occasione per conoscersi meglio e quindi anche l'opportunità per rinsaldare un'amicizia.



Appena la normalità sarà nuovamente tra noi, dovrò ritornarci, magari per sempre. chi lo può dire?!

 Maria Giovanna Farina

 


Bella Napoli

 

Mi piace tanto farmi una pizza e una birra alla pizzeria Bella Napoli, ma Gianni non vuole più portarmi. Dopo sei mesi di astinenza oggi mi ha promesso che nel prossimo fine settimana ci andremo, la gioia è incontenibile. So che passerò tutta la settimana pregustando l’evento straordinario, ordinerò la quattro stagioni e una birra media....saprò resistere, saprò soffocare la solita ossessiva domanda al cameriere, quella domanda che non sa fermarsi alla prima, ma che dà inizio ad un vero e proprio interrogatorio, innescherò anche stavolta la miccia pericolosa che fa incazzare come un pazzo Gianni?. Appena ordino la pizza e il cameriere mi chiederà: “Cosa le porto da bere ? ” Io risponderò “Una birra media”, ma dopo una breve pausa inizio: ”E’ birra alla spina?” “Sì” “Da dove viene?” “E’ italiana” “Sì, ma siamo sicuri che gli ingredienti non vengono dall’estero?” E il cameriere va in panne ed io prontamente prendo l’iniziativa “Guardi mi faccia vedere l’etichetta, non mi guardi inebetito è un mio diritto”. Questa scena si ripete ogni volta tra i risolini degli altri clienti, gli sbuffi del proprietario e gli sguardi infuocati di Gianni. Io non mi accorgo di essere così incalzante, per me è normale come bere una caraffa di birra. Del resto già a nove anni andavo in pizzeria e uscivo praticamente ubriaca ma felice. Per il mio analista allora cercavo la madre che mi mancava, mentre oggi.......chissà cosa cerco. Forse voglio liberarmi di Gianni e ogni volta ripeto lo stesso copione per provocarlo, mah!?

Sono avvertita, questa volta se incomincio è la FINE.

Eccoci finalmente in pizzeria. “Cosa le porto signora da bere?” “Una birra media” e dopo una breve pausa “E’ alla spina?”.................

Che bello! Una pizza, una birra e nessun altro tra noi.

Max Bonfanti, filosofo analista


Quando l'allievo supera il maestro

 

Il rapporto allievo-maestro non è solamente riferito ad un ambito strettamente scolastico, ma a tutti quei casi in cui c’è, e c’è stato, un rapporto in cui qualcuno guida e un altro segue. Molte persone hanno avuto chi si è occupato della loro formazione, qualcuno che li ha aiutati a raggiungere la meta professionale, artistica o culturale: la famosa ballerina ha incontrato una maestra che ha saputo cogliere e valorizzare doti e capacità permettendo il loro sviluppo e il cammino verso il successo. Lo stesso accade in ambito scientifico e culturale, ma ciò avviene anche nelle attività lavorative più comuni nei suoi campi più svariati. Ad esempio in ambito bancario o nel settore commerciale, può accadere che l’allievo prenda il volo, diventi più abile del maestro e perciò raggiunga in poco tempo il successo, mentre il maestro sia giunto ad un certo traguardo magari dopo anni di gavetta. La stessa sorte è capitata a Cartesio quando il suo amico e maestro Isac Beeckman cercò di screditarlo raccontando che il best sellers dell’epoca “Discorso sul metodo” era ispirato a suoi principi e non nato dalla mente dell'allievo. Cartesio amareggiato ruppe l’amicizia. Questa è la prima soluzione per risolvere la questione, rompere senza sentirsi in colpa perché un simile maestro è un traditore.

Per il maestro che si sente superato c'è invece una strada diversa. La soluzione sta nel rivedere la situazione sotto un profilo nuovo. Riuscire cioè a godere della propria bravura attraverso il successo di un altro, quello che noi abbiamo aiutato, un nostro figlio spirituale che è la prova vivente delle nostre capacità educative. Tutto ciò è possibile se riesce a venir meno l’invidia. 

Maria Giovanna Farina

Non voglio dipendere


Se non vogliamo dipendere, impariamo a farlo partendo dalle piccole cose con l'aiuto della filosofia pratica.

Uno degli scopi principali della filosofia è trovare la strada per rendere sempre più vivibile la vita e poter quindi avvicinarci alla felicità. Per vivere bene bisogna eliminare le dipendenze. La dipendenza è un’imperfezione, mentre per essere felici dobbiamo sempre più avvicinarci alla perfezione per quanto sia umanamente possibile. Ci aiuta Cartesio quando afferma nel “Discorso sul metodo” che “perfetto è ciò che non dipende da nulla”. Non ci resta che cercare di eliminare le dipendenze là dove sia possibile: non solo fumo e alcol, ma anche quelle apparentemente non dannose alla salute anche se deleterie per la realizzazione del sé. Da qui ci riallacciamo alle illusioni della mente che impediscono alla scienza di progredire e all’uomo di evolversi. Il retaggio culturale e gli stereotipi, quelli che Francesco Bacone definiva idola, di cui la mente è a volte prigioniera, ci impediscono di essere liberi di pensare e agire. Possiamo affermare che esiste una vera e propria dipendenza, una forte sudditanza, a modi di essere che spesso non ci rappresentano, ma agiscono come vere e proprie catene. Veniamo al solito esempio concreto. Ancor prima della fondazione dell’astronomia, era concezione dominante che il sole e gli astri ruotassero attorno alla terra. Qualunque idea diversa era considerata sacrilega. Ipparco (II sec. a.C.) prima, e Tolomeo (II se. d.C.) sostennero questa tesi. Dovettero passare ancora molti anni prima che Copernico (XVI sec.) potesse dimostrare che era la Terra a girare attorno al sole e la sua tesi fosse accettata come valida. Possiamo chiederci: “Cosa ha ostacolato la mia rivoluzione copernicana, quindi la mia evoluzione? È abbastanza probabile sia stata la dipendenza da qualche idea ingannevole: con la riflessione potrà emergere la risposta. 

Maria Giovanna Farina

Ascolta il tuo corpo

Ippocrate di Cos, padre della medicina moderna, aveva compreso già nel V secolo a.C. l’importanza dell’influenza della mente sul corpo gettando le basi della moderna Psicosomatica. Facendo un salto e giungendo al XVII secolo incontriamo Renato Cartesio che a detta di molti avrebbe inferto un duro colpo d’arresto a questo progresso con la sua divisione dell’uomo in res cogitans et res extensa. Non credo che il fine di Cartesio fosse quello di creare una separazione tra mente e corpo, ma se così fosse ricordo che il vero filosofo, amando la sapienza-conoscenza, non prende nessuna idea per buona, ma la analizza in modo razionale cercando di salvare ciò che è utile ed eliminando ciò che è dannoso per l’uomo. E’ sottinteso che per il filosofo le teorie sono suscettibili a cambiamenti. Possiamo quindi asserire che la mente è separata dal corpo quando c’è carenza di “ascolto del corpo”. Il corpo non mente, analizzando i suoi comportamenti possiamo capire meglio i nostri interlocutori. Il mio suggerimento è quello di abbandonarci di più al corpo. Ad esempio per risolvere certi disturbi di tensione muscolare dobbiamo staccarci temporaneamente dalla nostra parte razionale che spesso ne è la causa. Una postura inarcata delle spalle può significare che stiamo trasportando un peso interiore enorme: mentre cerchiamo di negarlo a livello razionale il corpo lo afferma. Proviamo allora a rilassare i nostri muscoli cercando di entrare in contatto col corpo attraverso la respirazione. Mettiamoci in posizione supina sdraiati su di un divano rigido, sulla sabbia se siamo al mare o sul tappeto di casa, mettiamo sotto la schiena nel punto ove si inarca un cuscino in modo che la pancia sia più in alto rispetto al resto del corpo e portiamo le braccia all’indietro. Iniziamo a respirare con regolarità prima con il torace e dopo un po’ con la pancia. Riusciamo bene in entrambi i modi? Che cosa succede? Il nostro corpo sta iniziando a parlare e la mente può iniziare ad ascoltarlo. Questa posizione favorisce l’affiorare dell’istinto che troppo spesso tentiamo di negare e per essere efficace l'esercizio è da farsi in solitudine. Ascoltare il nostro corpo significa liberarsi in parte dai pesi che gravano sulla nostra anima.

Maria Giovanna Farina


Milly e il biscotto




Quando viviamo con un cagnolino è bello ci sia uno scambio di affetto e di complicità, ma è meraviglio anche che l'animale viva una vita libera e il più possibile autentica. Il suo divertimento è anche salire su una scala per prendere l'amato biscotto e se apparentemente il dolcetto può sembrare un rinforzo per farle fare quello che vogliamo, non è assolutamente la risposta al proprietario per mostrare di ubbidire. 



Milly, la mia cagnolina, agisce solo per divertimento. Come l'ho capito? Beh, quando una cosa non la diverte puoi farle vedere i biscotti fin che vuoi ma lei non fa nulla. È molto furba e questa è una dote di natura, ma aver sviluppato l'intelligenza è dovuto al suo vivere ricco di stimoli. Milly non trascorre il tempo solo a cuccia a sonnecchiare pigramente, ma partecipa alla vita della casa dove è giunta 9 anni fa dal canile di Milano. Fa la guardia con grande abilità, interviene se qualcuno alza la voce, accoglie con grande entusiasmo gli ospiti, ascolta le conversazioni comprendendo molte parole... vivere con lei è un dono. Come scrivo nel libro Non siamo solo cagnolini, dove lei è la voce narrante, “È la prima volta che io e Giovanna possiamo abbracciarci, i miei occhi incontrano i suoi, le sue braccia circondano il mio corpo, vivo una grande emozione: non c'è cane senza un essere umano che lo possa amare e non esiste un essere umano veramente felice se non ama un cane”.

Maria Giovanna Farina 


Ridere per vivere meglio


Nel 1905 Freud pubblica Il motto di spirito, lì sostiene quanto la filosofia si sia occupata scarsamente del ridere. In questo saggio analizza varie tipologie di battute spiritose e giunge alla conclusione che tali battute sono utili per ottenere piacere. Partendo da questa considerazione possiamo osservare la nostra quotidianità per scovare almeno tre situazioni in cui si fanno spesso battute spiritose:

Quando si vuole scivolare da situazioni imbarazzanti. A questo proposito c’è una barzelletta di Freud davvero significativa che provo a riassumere. C’è un ricco caduto in disgrazia che chiede un prestito di denaro ad un amico facoltoso. I due si ritrovano al ristorante e il ricco rimprovera l’amico dicendo di non avergli prestato i soldi per mangiare salmone e maionese. L’accusato risponde: “Non capisco, se non ho denari non posso mangiare salmone e maionese, se ho denari non devo mangiare salmone e maionese. Allora quando riuscirò a mangiare salmone e maionese?” L'ironia è stata determinante per far cadere l'impaccio.

Per dimenticare momentaneamente il dolore. Pensiamo all'importanza della medicina del sorriso, dove i medici si vestono da clown per risollevare i piccoli pazienti e aiutare la loro guarigione.

Per scoprire ciò che è nascosto. Quanto fanno ridere i doppi sensi riferiti al sesso? Questo genere di battute è utile per giungere ad un argomento che ancora è coperto da tabù, ironizzando si rompe il ghiaccio e si entra nel discorso superando la vergogna. Al contrario le battute troppo pesanti sul sesso creano inibizioni.

Questi tre esempi ci mostrano quanto ridere e far ridere sia un utile strumento per vivere meglio ed è tanto più salutare quanto più siamo in sintonia con il nostro interlocutore, per cui è bene incoraggiare questa modalità comunicativa fin dall’infanzia.

Maria Giovanna Farina


Volontario casuale

Sempre più persone si dedicano al volontariato, in particolare giovani in attesa di occupazione e persone che hanno terminato il loro ciclo lavorativo e possono godersi una meritata pensione. Qual è il motivo che spinge tanti a dedicarsi agli altri senza aver nulla in cambio? Il busillis sta proprio in quel “nulla”: non è esatto dire senza aver nulla in cambio poiché qualcosa la ricevono anche se non in beni materiali: la soddisfazione di rendersi utili è un “pagamento” dal punto di vista spirituale superiore a quello economico. Secondo certi volontari che ho intervistato il vantaggio che traggono dal prestare la loro opera è superiore a quello del ricevente, si può quindi essere portati a credere che in certi casi il maggior beneficiario sia soprattutto il volontario.

Chi offre le proprie prestazioni a titolo gratuito in genere assume incarichi fissi, in certi giorni e in certi orari, ma ciò di cui vorrei parlare è quel tipo di volontariato non regolato da orari o dal calendario. Ci sono svariati modi per rendersi utili al prossimo, casi che si presentano quando meno ce lo aspettiamo come aiutare qualcuno in difficoltà nel fare cose comuni. Sono piccoli gesti che però danno grande piacere. Citerò alcuni esempi in cui si può compiere gesti altruistici che forse danno anche più soddisfazione del volontariato classico, proprio perché inaspettati. Aiutare una signora a portare sulle scale della metropolitana la carrozzina col bimbo, fare attraversare la strada a chi autonomamente avrebbe difficoltà, cedere il posto sui mezzi pubblici o nelle sale d’attesa a chi ne ha più bisogno di noi, e in genere aiutare chi si trova in difficoltà nello svolgimento delle normali attività. Ci si può rendere utili anche nei confronti degli animali, per esempio una volta mi è capitato di liberare un piccione che si era impigliato con una zampina in un filo che gli impediva di prendere il volo. La soddisfazione provata non era inferiore a quella di aver prestato altri aiuti. Ciò che si prova nel dare una mano al prossimo, chiunque esso sia, oltre a rappresentare una sensibile senso civico, è un piacere profondo che per poterlo ben descrivere bisogna solo trovarsi in quella particolare situazione e, come dice il Vangelo Mt. 6,3 “…Fa’ che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra in modo che la tua elemosina (aiuto) rimanga nel segreto…”

Un altro modo per rendersi utili al prossimo, certamente molto più impegnativo, potrebbe essere donare il sangue o il midollo osseo ma in questo caso il piacere di aver salvato una vita sarebbe incomparabile e, chissà che un giorno quel prossimo potremmo essere noi. Il piacere di fare del bene ci ripaga sempre anche quando non ci viene riconosciuto! Un vecchio adagio diceva: ”Fai il bene e scordalo”. 

Max Bonfanti, filosofo analista


Conosci te stesso? Conosci le tue mancanze?


Filosofia, come aiuto ad applicarla alla vita quotidiana: il primo passo verso se stessi

Sapere di non sapere è sapere”. Possiamo considerare questa famosa frase di Socrate come il punto di partenza della ricerca di sé. Per ri-trovare se stessi è auspicabile iniziare il viaggio con questo presupposto. “Sapere di non sapere” significa essere consapevoli delle proprie mancanze e incapacità, questa ri-cerca può apparire una banalità, al contrario è meno facile di quanto si possa credere. Per orgoglio a volte non si vogliono prendere in considerazione le proprie carenze: “Io non sono capace di …, Io non sono in grado di…” sono affermazioni difficili da ammettere a se stessi, figuriamoci agli altri. La consapevolezza della propria ignoranza, per parafrasare Socrate, diventa anche il primo obiettivo di chi vuole conoscere se stesso. È un’operazione semplice e complicata allo stesso tempo e richiede un po’ di umiltà. Dobbiamo lasciar uscire il nostro essere dall’arroccamento di una chiusura troppo difensiva che ci offre una sola visione del reale, per abbracciare, al contrario, delle possibilità alternative. La ricerca della consapevolezza della propria incapacità vuol dire scoprire ad esempio che non siamo in grado di comprendere le esigenze altrui e di conseguenza non riusciamo ad instaurare buone relazioni. Non capiamo ad esempio nostra moglie o nostro marito. Perché siamo incapaci? Forse non sappiamo ascoltare, forse ascoltiamo solo quello che vogliamo udire e non quello che realmente ci viene comunicato. Forse ascoltiamo solo quello che ci conviene. Se siamo disposti a compiere questo primo passo, possiamo partire alla ricerca e alla scoperta di strumenti utili: il mio interlocutore è di fronte a me, lo osservo, confronto il suo linguaggio verbale con quello non verbale……. E così mi incammino verso l’altro.